Thomas Hampson e Martin Grubinger con il Percussive Planet Ensemble


25 OTTOBRE  2015 – Teatro alla Scala

Dal libretto di presentazione

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A proposito di Martin Grubinger, salisburghese classe 1983, figlio di padre anch’esso eccellente percussionista (e ora membro dell’orchestra) che a quattro anni già gli aveva messo le bacchette in mano, si sono spese innumerevoli definizioni: genio, enfant terrible, funambolo, giocoliere, fenomeno istrionico. Nella pallonara America latina, che al mondo del “fùtbol” rimanda ogni comparazione, perché da quelle parti è questa la vera unità di misura di ogni talento, è stato paragonato a un Ronaldo o un Messi delle bacchette. E se dunque Grubinger è uno di quelli “che la butta dentro”, per restare in metafora calcistica,  suscitando a ogni esibizione un tifo da stadio ed entusiastiche standing ovation, perfino nelle austere sale da concerto viennesi e berlinesi, non c’è che dire. Chapeau. Infatti Grubinger, a prescindere dall’oggetto delle sue esecuzioni, è in primo luogo un grande performer, un vero virtuoso delle percussioni, e il virtuosismo, in musica come altrove, è da sempre sinonimo di spettacolo (ricordate Paganini con i suoi Capricci?), perciò assistere a un concerto del Percussive Planet Ensemble vuol anche dire partecipare a uno show che ha la sua forza non solo nell’ascolto passivo, ma vi si aggiunge anche il godimento tutto visuale della teatralità del gesto.

Originale progetto è quello che vede uniti in una singolare collaborazione l’Ensemble di Grubinger e il baritono Thomas Hampson, nato nell’Indiana nel 1955, uno tra i più quotati e versatili cantanti lirici della scena mondiale, esecutore che ha spaziato dagli oratori della musica barocca, fino ad autori contemporanei e al teatro musicale di Leonard Bernstein, Irving Berlin (l’autore di White Christmas), Cole Porter. Insignito da numerosi importanti riconoscimenti, con la Fondazione da lui costituita Hampson oggi svolge anche una preziosa opera di scouting e docenza per la ricerca e il sostegno di giovani talenti musicali in America e nel mondo.

Pareva inevitabile che queste esperienze dovessero incontrarsi. I due artisti con il loro ensemble non si pongono confini. L’ambito delle esibizioni di Grubinger riguarda tutto l’universo sonoro, secondo quella concezione  consolidatasi per molte ragioni nella musica colta, come in altre arti, lungo tutto l’arco del Novecento, dalla scoperta del “primitivismo” alle nuove possibilità di ascolto offerte dalla moderna riproducibilità seriale,  in cui il suono supera i limiti europei del “bello”, dell’armonia e della simmetria, e introduce i rumori della natura, dei tamburi “selvaggi”, delle armi da fuoco, delle macchine per scrivere o delle sirene industriali; è programmatico che l’esecutore partecipi alla composizione confrontandosi alla pari con l’autore; si lascia spazio all’improvvisazione. L’opera artistica perciò “si apre”, come evidenziava in un notissimo saggio Umberto Eco negli anni delle neoavanguardie. I precedenti storici, citando alla rinfusa, vanno da Stravinskij a Bartòk, da Varese a Gershwin, da Schaeffer a Stockhausen, da Berio a Cage. In questa prospettiva la contaminazione dei “generi”, come nella musica jazz, è vitale, si adotta la musica etnica, il blues, la samba, lo swing, il funky, il rock.

La scelta dei brani da parte del gruppo di Grubinger e del baritono Thomas Hampson dimostra questa volontà di abbattere le barriere dei generi, di sperimentare le combinazioni tra i tamburi, associati ai più educati xilofoni e altri strumenti temperati (tastiere e fiati), a sostegno della voce umana, ricercando nella musica di compositori contemporanei le partiture che specificamente si indirizzano sia alla forma cantata che all’esecuzione di un ensemble che privilegia la componente ritmica. Nell’affrontare la musica di intrattenimento, la ricerca si spinge invece al remixaggio del tessuto ritmico-melodico della canzone originale, che sia un evergreen dello swing, o un pezzo pop-rock, in qualche modo ri-creando il brano. È affascinante il contrasto tra le due parti del programma e come Thomas Hampson si metta, con divertimento, totalmente a disposizione dell’operazione.

Su questa linea è coerente la scelta di aprire la prima parte con George Crumb e quattro sue reinterpretazioni di alcuni tra i più noti gospel tradizionali. Crumb, nato nel 1929 a Charleston in West Virginia, formatosi tra gli Stati Uniti e Berlino, sempre  apprezzato dalla critica, è considerato un inguaribile sperimentatore. “La sua musica è una commistione incredibile di suggestioni: dalle esplorazioni di timbri inusuali all’amplificazione degli strumenti acustici, passando per precise gestualità nell’esecuzione, nulla viene lasciato al caso” (F. Del Gaudio). Per questi aspetti, è esemplare l’intensa produzione degli anni settanta in cui si richiede agli esecutori di utilizzare in maniera atipica i loro strumenti, percuotendoli e traendone suoni impropri. Dal 2000 al 2010 Crumb si è dedicato a diverse raccolte di opere sotto il titolo di American Songbook per voce, pianoforte (o altri strumenti) e percussioni. Ognuna di queste opere è un insieme di arrangiamenti di inni americani, spiritual e melodie popolari che ci rammentano il precedente del 1964 dei Folk Songs  composti da Luciano Berio per la voce di Cathy Berberian. Normalmente Crumb conserva più o meno intatta la nostalgia delle ben note melodie tradizionali, ma gli accompagnamenti per pianoforte e percussionisti utilizzano una gamma molto ampia di tecniche musicali, di amplificazioni e di suoni esotici che trasportano l’ascoltatore in un’atmosfera del tutto nuova.

Clima diverso è quello invece quello evocato dalle composizioni di John Corigliano, nato a New York nel 1938 da genitori italiani entrambi musicisti. Dalle prime produzioni all’inizio degli anni sessanta, il suo lavoro si è principalmente concentrato sulla musica sinfonica orchestrale senza quasi mai eccedere dai limiti dell’ascoltabilità e della godibilità, pur dedicando spesso le sue opere a cause impegnative, dalle persone scomparse a causa dell’AIDS, alle tematiche omosessuali. Nel 1999 vince l’Oscar per la migliore colonna sonora con Il violino rosso per l’omonimo film. Nel 2004 compone la  Sinfonia n. 3 Circus Maximus, scritta per orchestra di fiati con pianoforte, arpa e percussioni, con un fucile a salve per lo sparo di chiusura dell’opera (ricordiamo altri precedenti come i colpi di pistola nelle opere di Cocteau-Satie). Nel primo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle gli viene chiesto di comporre una musica commemorativa, ma rifiuta perché considera ancora “troppo fresca” la memoria della tragedia. Dieci anni dopo, nel 2011, invece si sente pronto ad affrontare il doloroso tema e compone l’opera One Sweet Morning per mezzo soprano e orchestra che presenta titoli significativi come On the day the world ends, basato su un testo poetico di Czeslaw Milosz scritto a Varsavia nel 1944. Nel brano Patroclus la composizione, ispirata ai massacri della guerra di Troia, richiama con le preponderanti percussioni i suoni e le atmosfere tragiche già presenti in Circus Maximus, in un grido di denuncia delle efferatezze di ogni guerra. Ma a proposito del malinconico One Sweet Morning, il brano che dà il nome a tutta l’opera con un testo del poeta E.Y. Harburg, e che conclude questa parte di programma, afferma Corigliano in un’intervista: “Questo è un brano che viene considerato triste, ma non lo è, è tenero”. La dolcezza viene a lenire il dolore.

La seconda parte del programma vira decisamente verso l’alleggerimento, senza scadere di qualità, con la musica di Sting, altra spiazzante scelta di questo sconfinato (nel senso letterale della parola, cioè senza confini) programma musicale, che tradisce una segreta ammirazione del giovane Grubinger per la pop star, ma è del tutto coerente con quanto si diceva nelle premesse. Brani spesso  ricchi di swing e di ritmica afro-etnica, che costituiscono una delle cifre principali del repertorio di Sting, come Never coming home e Send your love si inseriscono perfettamente nelle sonorità intessute dall’ensemble, mentre le ballate più intimiste come Fragile (anche questa, dal testo fortemente emblematico, suonata da Sting come unico brano di un concerto subito dopo l’attentato dell’11 settembre) o Shape of my hearth consentono di giocare sulle variazioni attraverso la voce e suggestivi percorsi ritmico-melodici. Il percorso solista del cantante e polistrumentista britannico, dai Police del 1977 fino all’inizio della carriera solista dal 1985 è stato segnato da una costante e onesta ricerca in cui non era scontato che l’artista dovesse sempre strizzare l’occhio al mercato e al successo commerciale. Le collaborazioni con musicisti jazz sono state frequenti, così come spesso lo si è visto salire su palcoscenici alternativi al mondo del pop, da Umbria Jazz, al festival di Montreux, ai maggiori teatri lirici, cercando raffinati pubblici intergenerazionali e programmatiche contaminazioni  stilistiche. Dunque un invito a nozze per musicisti come Grubinger e i suoi, di cui possiamo comprendere la stima per l’uomo e le sue inesauste sperimentazioni, non ultima la condivisione del suo impegno su tematiche pacifiste e ambientaliste.

Per concludere, un quasi doveroso omaggio a Frank Sinatra nell’anno del centenario della sua nascita. Un riconoscimento che proprio quest’anno ha messo d’accordo quasi tutto il mondo della musica, al punto che perfino Bob Dylan (che ai tempi non poteva che essere considerato in tutto e per tutto agli antipodi di Sinatra) è uscito con un disco di cover. Forse “The Voice” non necessita di presentazione, e i brani messi in scaletta sono alcuni tra i più noti della sua straordinaria carriera di interprete. New York New York, I’ve got you under my skin,  Come fly with me e l’evergreen Mack the Knife, sono così famosi che il pubblico, se anche  per caso non ne ricordasse i titoli, li riconoscerebbe fin dalle prime note e potrebbe tranquillamente canticchiarli battendo la mano sui braccioli. Tuttavia, che in questa occasione  a cantare Sinatra non sia l’ennesimo cantante confidenziale suo epigono-imitatore, ma un baritono di formazione classica, costituisce sicuramente un elemento di interesse, così come il fatto che non ci sia alle sue spalle una tradizionale orchestra swing ma gli estrosi arrangiamenti dell’ensemble di Grubinger. L’effetto di familiarità e al contempo di straniamento sono assicurati. Ascoltare per credere.

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