
L’abolizione della morte
I
Nel mio ruolo di storico, o, meglio, di testimone della memoria storica, mi è stato chiesto di raccontare per i posteri, se ve ne saranno, come si è giunti alla drammatica situazione che stiamo vivendo oggi, nell’anno 2231. Per andare alla radice del problema dovrò risalire a quasi tre secoli addietro, perciò chiedo un po’ di pazienza.
Il cambiamento probabilmente era già iniziato a partire dagli anni Cinquanta del 1900 con quella generazione di giovani che non aveva partecipato alla seconda guerra mondiale e che negli USA esprimeva poeti, scrittori, artisti, musicisti, teppisti. La chiamarono Beat Generation. Ma il processo si palesò in tutta la sua forza innovativa, e con effetti di massa dilaganti in tutto il mondo, nel decennio successivo. Era una ribellione che aveva radici in una miscela di suggestioni filosofiche, politiche, esistenziali, musicali. Si cominciò a parlare concretamente dei giovani come categoria sociale e del problema della condizione giovanile. Si precisò anche un concetto più definito di adolescenza come status non collegato esclusivamente al solo periodo dello sviluppo sessuale. Si chiarirono bisogni e attese di quell’età compresa pressappoco tra i tredici e i diciannove anni, i teenager, come li definivano gli angloamericani con le loro spesso efficaci sintesi lessicali. Un fatto mai avvenuto prima nella storia: fino ad allora si concepivano solo l’infanzia, l’età adulta, la vecchiaia, le tre età dell’uomo, con ruoli scanditi da riti di passaggio e rigidamente delineati. Nessuno aveva mai pensato all’esistenza di un’altra età di mezzo col suo fardello di problemi e di diritti. Mai prima si sarebbe immaginato che i giovani avrebbero respinto e deriso la saggezza degli anziani, o che si sarebbero ribellati ai padri. Nel 1965 un gruppo rock, gli Who, scrisse un pezzo, My Generation, in cui un verso scioccante diceva “spero di morire prima di diventare vecchio”. I giovani lo cantarono tutti a perdifiato. Il filosofo Herbert Marcuse intravide proprio nella vitalità ribelle del mondo giovanile la sorgente di quella rivoluzione che avrebbe portato l’immaginazione al potere. Perché l’immaginazione, la fantasia, era prerogativa della nuova generazione, contro l’autoritarismo e la repressione ottusa di quel vecchio potere che restava in via esclusiva nelle mani degli anziani. L’immaginazione al potere fu uno degli slogan del 1968, il primo grande tentativo di una generazione intera di rovesciare quella precedente. Ci fu in quell’anno negli USA, al tempo della rivolta all’università di Berkeley, anche un agitatore della sinistra radicale, un certo Jerry Rubin, trentenne, che coniò lo slogan “Non fidarti mai di nessuno che abbia più di trentacinque anni”. E, d’altra parte, come fidarsi di quella generazione che aveva prodotto fascismo e nazismo, scatenato una sanguinosa guerra mondiale, inventato lager e gulag, sganciato la bomba atomica, invaso il Vietnam e sostenuto regimi totalitari in tre quarti del mondo? Rubin aveva azzardato molto, avendo già compiuto i trent’anni, infatti nel 1976, giunto all’età di trentotto, scrisse il libro Growing (Up) at Thirty-Seven [Crescere fino ai trentasette], le sue memorie di attivista rivoluzionario, che fu tradotto significativamente in Italia con il titolo Uccidi il padre e la madre. Rubin divenne poi un uomo d’affari (ma senza rinnegare i suoi trascorsi) e morì a quarantotto anni per un incidente d’auto. Anche Pete Townshend degli Who, che cantava la speranza di morire prima di invecchiare, è invece invecchiato tranquillamente. È ovvio che si trattava di provocazioni, ma intanto un seme era gettato. Si creò una tendenza psicologica e sociale secondo la quale coloro che erano stati adolescenti ribelli in quei decenni restavano tali nello spirito. Si parlò di sindrome di Peter Pan, di rifiuto di crescere, di eterni ragazzi. La critica marxista fece scudo e tentò di ricondurre questa inedita forma di ribellione alle tradizionali categorie della lotta tra classi sociali. Ma i tempi erano cambiati. L’idea aveva trovato terreno fertile, e peraltro non era nemmeno una novità giacché da millenni l’umanità sognava l’eterna giovinezza e l’immortalità da conseguire mediante pratiche magiche, elisir alchemici, fontane miracolose, patti diabolici e via discorrendo, ma la nascente era tecnologica moderna cominciava a fornire l’illusione molto realistica di poter contrastare la vecchiaia e procrastinare la morte. Gli studi scientifici erano tutto sommato recenti e progredivano di anno in anno: soltanto da meno di un secolo si erano individuate le cause di molte malattie, la funzione di virus e batteri, i farmaci per contrastarli e l’introduzione dei vaccini. Grazie a queste scoperte, malattie endemiche come peste, vaiolo, colera, poliomielite, morbillo, mietevano sempre meno vittime e stavano diventando poco più che un ricordo, al punto che alcuni pensavano addirittura si potesse fare a meno della medicina per tornare ai rimedi delle nonne. Naturalmente non era così, e, anzi, gli studi progredirono negli anni successivi arrivando a contenere e infine debellare numerose altre disfunzioni dell’organismo, dalle malattie cardiovascolari e genetiche ai tumori. L’insorgenza di nuove patologie causate da mutazioni virali, come AIDS, Ebola e varie altre specie di virus, poteva creare crisi momentanee, ma alla fine tutte venivano messe sotto controllo con relativa rapidità. Il miglioramento della salute e delle condizioni di vita aveva portato gradualmente ad un prolungamento dell’età degli anziani. La vecchiaia cominciò a essere sentita come un problema solo all’approssimarsi dei novant’anni, al punto che, a dispetto dei sogni degli anni Sessanta del Novecento, molti uomini ai vertici del potere rasentavano età più che rispettabili. Ma l’obiettivo di molti non era solo quello di invecchiare il più a lungo possibile in salute, ma anche quello di apparire sempre giovani, possibilmente con lo stesso aspetto che si aveva da adolescenti o poco più. Tutto ciò ebbe particolare incremento anche in seguito a una dimensione sempre più estesa dei mezzi di comunicazione audiovisiva: la necessità frequente, per ogni ceto sociale, di apparire sullo schermo della TV divenne quasi un’ossessione. La proliferazione delle emittenti televisive, l’avvento di internet, l’introduzione di piattaforme digitali con la moltiplicazione all’infinito dei canali televisivi, la pervasività dei numerosi social network che, facendolo sentire come un diritto anziché un’opportunità, consentivano a chiunque, con uno strumento semplice come un vecchio telefonino, di fare fotografie e filmati da rendere immediatamente visibili in rete o di organizzarsi autonomamente trasmissioni in diretta streaming, stavano consolidando quella società pop dell’immagine che avrebbe condizionato irreversibilmente gli sviluppi successivi. Tutto sarebbe passato attraverso le immagini, dai fornelli della cucina alle dichiarazioni politiche sul terrazzo di casa, smaterializzando la necessità del reale a favore dell’informale virtuale, verso un generale livellamento dei valori e dei meriti in una sorta di democrazia piatta. Si stavano avverando per tutti quei “quindici minuti di celebrità” profetizzati dall’artista Andy Warhol. Di pari passo ebbe grande diffusione l’uso di prodotti cosmetici sempre più raffinati e mirati, l’abitudine di frequentare con assiduità gli istituti estetici, i centri per massaggi rinvigorenti, le palestre e ogni tipo di attività sportiva anche estrema, oltre al ricorso a interventi di chirurgia correttiva che restituivano un’apparente nuova freschezza alla pelle. Donne e uomini di sessant’anni ne dimostravano trenta. Jerry Rubin aveva vinto: nessuno avrebbe avuto più di trentacinque anni. La morte divenne un orizzonte sempre più lontano, un fastidio che andava rimosso, una sfida alla vita. Si cominciò con l’eliminazione progressiva dei riti funebri, riducendoli a un breve accompagnamento tra pochi affini all’incinerazione delle salme. Si diffuse l’uso di spargere le ceneri in natura e si eliminarono poco alla volta tombe e cimiteri. La memoria dei defunti si ridusse a un fatto intimo privo di atti simbolici, nessun rito collettivo accompagnava il passaggio all’aldilà. Il filosofo francese Jean Baudrillard aveva osservato che questa liberazione dall’idea della morte era proceduta parallelamente a una liberazione della sessualità che non aveva più nulla a che fare con l’ideale di amore libero degli anni Sessanta di quel secolo, ma era uno svincolarsi oggettivo della sessualità dalla necessità riproduttiva, cui si sopperì in seguito, come è noto, con la diffusione della pratica della fecondazione in vitro prima, e della clonazione poi. Sul piano sociale e culturale tutto ciò iniziò a rappresentare una inedita e sconvolgente svolta per la mente umana, ma dal momento che il processo si era avviato non sarebbe stato più possibile recedere.
II
La vera sfida si presentò a partire dalla metà degli anni trenta del nuovo secolo, circa duecento anni fa, per dare risposta a un interrogativo fondamentale: così come la nascita è diventata un evento governabile, la morte può essere considerata un male curabile? Naturalmente molti uomini di scienza si erano posti da tempo un tale quesito e gli studi teorici e di laboratorio erano in corso, sebbene poco sostenuti da finanziamenti pubblici, poiché si sa che l’ordinaria miopia statale delle nazioni, allora come oggi, non contempla altro che il quotidiano, perciò ogni ministero della salute, con le sempre scarse risorse a disposizione spesso male indirizzate, non poteva che considerare banalmente la morte come un fatto ineluttabile. All’alba del millennio si era a conoscenza di esperimenti sui ratti eseguiti presso l’equipe di David Sinclair all’Harvard Medical School di Boston, con sostanze che tendevano a inibire a livello molecolare l’invecchiamento delle cellule. Ma si trattava, naturalmente, di studi pionieristici su una strada ancora tutta da percorrere e circondata da scetticismo. Qualcuno disse: «Non siamo ancora riusciti a limitare l’invecchiamento delle automobili, figuriamoci con il corpo umano!». Poi, ancora una volta, paradossalmente, fu una spinta dal basso, pop, a dare impulso alla ricerca. Era trascorso qualche decennio e la ricerca in quella direzione era stagnante, quando, nel 2053, un gruppo over-punk britannico, oggi quasi dimenticato, che si chiamava Today and Tomorrow, fece un grande successo con un brano, Against God, dirompente sia per i suoni insoliti dell’elettronica, ma accattivante nei riff, sia per il testo che aveva caratteristiche quasi blasfeme ed eversive, e in cui ricorreva un verso che diceva “Dio hai sbagliato i tuoi conti, smetteremo di morire”. Niente di eccezionale dal punto di vista letterario, in effetti, e non indicava alcuna strada, ma per gli imperscrutabili meccanismi con cui si spandono a volte le idee quando trovano un contesto fertile, quel verso ebbe il potere di suggestionare folle di adolescenti e da questi di creare una moda, un comune sentire, e un movimento di opinione piuttosto forte, sia nel mondo dello show business, sia in alcune influenti frange politiche, che pretendeva stanziamenti consistenti per cercare una soluzione al problema della morte. Ingenti contributi privati affluirono ad alimentare un fondo per la ricerca. Per gli scienziati di tutto il mondo, ieri come oggi, niente è più stimolante del denaro e della competizione per raggiungere rapidamente dei traguardi. E fu ciò che avvenne. Molti si resero conto che la strada farmacologica su cui si era avventurata una parte dei laboratori di ricerca non avrebbe portato lontano. Tutto ciò che si poteva ottenere era un ulteriore rallentamento dell’invecchiamento, peraltro sempre benvenuto, tramite degli inibitori del metabolismo cellulare, ma non poteva essere la soluzione definitiva. Altri batterono la via della manipolazione genetica, e fu la scelta vincente. Le tecniche ormai acquisite, sempre più sofisticate, della fecondazione in vitro e della clonazione, condussero in breve ad introdurre modifiche genetiche agli embrioni dei ratti che diedero risultati sbalorditivi. La vita media di un topo da laboratorio è di circa uno-due anni, mentre gli animali trattati con la nuova tecnica, smisero di morire. Unico inconveniente: nascevano individui sterili. L’annuncio fu dato per primo da un laboratorio cinese. Naturalmente la prova certa si ebbe solo dopo un certo numero di anni, ma intanto, superato di tre volte il limite di sopravvivenza dei ratti, poterono uscire le prime conferme con articoli sulle riviste scientifiche che fecero grande clamore. Una parte dell’opinione pubblica chiamò in causa i consueti aspetti di carattere etico-morale, ma il movimento che pretendeva la soluzione al problema della morte ebbe senz’altro il sopravvento. Il giovane filosofo transumanista italiano Ermete Caccia, guru delle nuove generazioni, rifacendosi al pensiero di Nietzsche ebbe a dichiarare che si inaugurava finalmente una nuova età per l’uomo, e che la sfida a Dio – omettendo di citare il verso dei Today and Tomorrow – era ormai aperta. Scrisse anche un libro nel 2070, caratterizzato da un linguaggio piano e comprensibile, che ebbe ampia tiratura e numerose ristampe: Da homo sapiens a homo deus. Prolegomeni a una scienza liberata dalla metafisica. Per evidenti ragioni tecniche sarebbe stato impossibile concedere ai già nati questa nuova possibilità, ciononostante partirono immediatamente forti pressioni per iniziare la sperimentazione su larga scala. E infine si avviò quella sull’uomo che fu finalmente autorizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità superati alcuni aspetti giuridici grazie ad apposite legislazioni emanate in alcuni paesi, dal Giappone, all’Olanda, alla Svezia, agli USA e la Cina stessa. Più attendisti furono i paesi cattolici, per ragioni che è superfluo spiegare, e la Gran Bretagna che era alle prese con una grave crisi politica interna a causa di complicati rapporti economici con l’Unione Europea e con il separatismo della Scozia. Altri aspetti tecnici richiedevano inoltre maggiori certezze, poiché i geni modificati dovevano consentire il regolare funzionamento degli ormoni della crescita, cessata la quale, al raggiungimento dell’età adulta mediamente collocata intorno ai venti anni (ovvero quando l’organismo cessa di secernere tali ormoni), l’individuo si doveva stabilizzare. Non c’era nemmeno certezza se a lungo andare sarebbe comunque sopraggiunto un deperimento generale dell’organismo benché progettato per durare (e ancora oggi non lo sappiamo, in effetti, perché a distanza di molti anni nessuno è mai deceduto per cause naturali). Seguì ancora una lunga fase sperimentale sui cani e sulle scimmie in seguito ai cui risultati confortanti si poté decidere di passare agli esseri umani. Si lavorò parallelamente in tre laboratori, in Asia, in Europa e in America utilizzando inizialmente embrioni congelati di donatori sconosciuti. Si era intanto giunti al giro di boa del XXII secolo. Oggi possiamo dire che quella sperimentazione ebbe completo successo e che tutti gli individui creati in laboratorio superarono i precedenti limiti biologici. Io sono uno di loro e ho adottato un cane, nato ventun anni prima di me, che resterà fedelmente al mio fianco finché non decideremo di sopprimerci per stanchezza di vivere. Ma questo è un altro argomento.
III
Io sono nato nel 2101 dal ventre di una sconosciuta volontaria olandese, perciò oggi ho 130 anni e sono, e sarò per sempre, nel gruppo dei più longevi su questa terra, salvo gli imprevisti di cui parlerò più avanti. La nuova frontiera della riproduzione umana aveva aperto scenari assolutamente inediti e andava affrontata con ponderazione. Inutile dire che la maggioranza volle che i propri discendenti possedessero le nuove caratteristiche genetiche, e sarebbe perciò stato impensabile creare disparità tra gli esseri umani, tra brevitermine e lungotermine, shorterm e longterm, (così furono definiti, perché le parole mortali e immortali suonavano non politicamente corrette, oltre al fatto che si voleva escludere il concetto di morte dal vocabolario). Era chiaro che i longterm avrebbero in breve dominato il mondo e che gli shorterm avrebbero rischiato il divenire una classe subalterna e sfruttata nel corso della loro breve vita. Occorrevano accordi internazionali e una legislazione che governasse la transizione. Venne promulgata una nuova Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che affermava il diritto inalienabile per ogni essere umano di non morire. Non vorrei dilungarmi troppo sugli innumerevoli aspetti giuridici che andavano valutati a cominciare dall’obiezione di coscienza che venne sostanzialmente proibita sancendo l’obbligo erga omnes di mettere a disposizione i propri embrioni per il trattamento genetico. Fu accordato inoltre il diritto per chiunque di ricorrere per incontestabile scelta personale al suicidio assistito qualora, a lungo andare, il troppo vivere divenisse insopportabile. Si mise mano al diritto di famiglia, con particolare riguardo al tema delicato delle successioni (si stabilì l’abrogazione di tutte le norme successorie per linee di parentela e l’obbligo del testamento per lasciti discrezionali). Le nascite furono strettamente contingentate per non sovraffollare un pianeta già peraltro al limite della capienza. Poiché la morte restava sempre un’opzione possibile, vuoi per scelta, vuoi per accidente, si stabilì un rapporto 1:1 tra deceduti e nascituri, sebbene da più parti si fosse insistito per approfittare dell’occasione per ridurre la popolazione della terra, ma al riguardo si prospettavano altre soluzioni che tratterò più avanti. Ogni decisione fu oggetto di ampie discussioni tra giuristi, scienziati, teologi (questi ultimi convinsero le gerarchie ecclesiastiche che il sacro concetto del diritto alla vita avrebbe finalmente trovato la sua più alta espressione). Nella maggioranza dei paesi a regime democratico ogni pacchetto di provvedimenti venne sottoposto ad approvazione con referendum popolare. Furono poste regole al potere politico (e non fu facile) per evitare che taluni sedessero sugli scranni parlamentari per secoli. La questione non si poneva per i regimi totalitari, dove, con apposite riforme costituzionali, alcuni presidenti garantirono ai nipoti la permanenza al potere per l’eternità. La legislazione fu sempre volta a mettere in rilievo tutti i vantaggi per le future generazioni, eliminando uno alla volta tutti i possibili ostacoli. Il corpus legislativo ebbe comunque una base di accordo comune e fu denominato Patto Internazionale per il Diritto alla Vita, ma ovunque la gente lo chiamò semplicemente “abolizione della morte”. Sicuramente uno dei temi più complessi da definire, che ho appositamente lasciato per ultimo, riguardò il diritto del lavoro e la riforma del sistema pensionistico. Le discussioni furono accese e controverse. Nei tavoli di lavoro tra governi e organizzazioni sindacali si assistette a vere e proprie risse. Si giunse, come era ovvio, a una soluzione di compromesso. Per evidentissima ragioni, nessuno sarebbe stato disposto a lavorare per l’eternità, tanto più che a quel momento ancora non vi erano certezze comprovate sull’effettiva durata dell’esistenza con il nuovo corso biologico, oltre al fatto che la vita a tempo indefinito non escludeva la morte per un qualche accidente: tanto più durava l’esistenza, tanto più poteva essere probabile un incidente mortale prima o poi. Ma si poteva forse far lavorare qualcuno a tempo indeterminato sino a che non sopraggiungeva un qualche evento nefasto a interromperne la vita? E che dire del welfare? Si poteva immaginare che ci si pagasse una rendita vitalizia per una manciata di decenni e poi di campare in pensione per alcuni secoli? Era evidentemente un sistema inammissibile. La soluzione più ragionevole, introdotta in via sperimentale, consistette perciò nell’alternare lunghi periodi di lavoro a lunghi periodi di riposo. Si stabilì prima di tutto che l’educazione degli individui avrebbe avuto una durata maggiore attraverso un approfondito percorso di studi e di apprendistato che doveva protrarsi per non meno di trent’anni, dopodiché si poteva accedere al mondo del lavoro in via definitiva. Ognuno, per qualsiasi occupazione, avrebbe dovuto lavorare per non più di quarant’anni, durante i quali avrebbe accumulato una rendita che gli doveva consentire di godere di un periodo di inattività di almeno vent’anni. Poi si sarebbe nuovamente inserito nel ciclo produttivo per altri quarant’anni. Aumentare il periodo della pensione fino a una durata pari agli anni di lavoro avrebbe richiesto un accantonamento contributivo troppo elevato sia per il lavoratore che per il datore di lavoro. Sebbene secondo i calcoli di alcuni esperti (ricordo in particolare il libro del matematico israeliano Ben Ysra, Cabbala e lavoro, profezie per un fallimento, Tel Aviv, 2121) venisse dimostrata l’insostenibilità del meccanismo, si decise di procedere comunque, trattandosi di una fase sperimentale a cui si sarebbero potuti introdurre aggiustamenti successivamente, visto che il problema non si sarebbe posto che a fine secolo. La questione si rivelò in effetti più complessa del previsto, sia sul piano economico che su quello sociale. In pratica, si crearono due effetti: il primo, che il rientro al lavoro dopo soli vent’anni non garantiva di ritrovare la disponibilità di un posto, dal momento che intanto gli occupati saturavano già il mercato in attesa del loro turno di pensione. Era evidente che, salvo una improbabile espansione produttiva, si sarebbe potuto anche in questo caso consentire solo un ricambio 1:1, fuori uno, dentro un altro. In breve tempo sarebbe salita in maniera esponenziale la quantità dei disoccupati in cerca di reinserimento e senza alcun ammortizzatore sociale, cosa che puntualmente avvenne sul finire del secolo. Inoltre, cosa anche più drammatica, fu la reazione psicologica di molti che, dopo aver lavorato quarant’anni ed essersela goduta per venti, sempre giovani e in buona salute, non avevano la benché minima voglia di riprendere una routine di lavoro. Si venne così a creare una certa fascia di disagio sociale che ebbe il suo apice nel movimento mondiale degli Immortal Wild Bikers (IWB), gente che viveva di espedienti scorrazzando su enormi veicoli a due ruote con atteggiamenti violenti e antisistema. Il loro inno era un pezzo ultra-metal che, paradossalmente, invocava la morte con versi inequivocabilmente satanici.
IV
Ma sin qui ho trattato solo della fase di avvio del nuovo corso demografico, il quale andava di pari passo con il progredire della scienza e della tecnologia. Facciamo un passo indietro. Sin dagli anni Quaranta del Duemila, all’incirca, erano iniziate le prime spedizioni umane all’interno del nostro sistema solare. Come ben si sa, la colonizzazione di Marte non fu facile, né rapida, né considerata veramente strategica alla resa dei conti. Fu però sicuramente utile per il progresso tecnologico che aveva comportato lo stabilire lassù alcune basi marziane per un manipolo di ricercatori. Quel pianeta sterile e sassoso offriva ben poco altro: un laboratorio di studi scientifici, l’individuazione di vene minerarie di scarso pregio, il cui costo di estrazione e trasporto sarebbe risultato proibitivo. Inoltre, il viaggio di andata e ritorno era di una lunghezza esasperante rendendo il trasporto dei materiali e degli approvvigionamenti tra i pianeti estremamente diseconomico. Ma, come spesso avviene nelle fasi di progresso dell’umanità, quando sembra che tutto ciò che appariva immutabile improvvisamente comincia a correre, negli stessi anni in cui si mettevano a punto le ricerche genetiche per vincere il problema della morte, la scienza e la tecnologia astronautica compirono un altro balzo con lo studio di fattibilità, e in seguito la realizzazione, di un propulsore basato su una nuova fisica della materia che consentiva un’accelerazione fino ad allora inimmaginabile a veicoli spaziali di qualsiasi massa. Basti dire che un viaggio verso il pianeta rosso richiedeva in precedenza da sette a nove mesi alla velocità inerziale di appena 40.000 chilometri orari, mentre con i nuovi propulsori la medesima distanza, come sappiamo, poteva essere coperta nel giro di pochi giorni. Si era nell’anno 2104, quando io avevo appena tre anni e iniziavo il mio percorso scolastico compitando lettere e numeri e risolvendo le prime semplici equazioni per bambini delle scuole materne. Il premio Nobel fu assegnato quell’anno all’intero staff di fisici del CERN di Ginevra che festeggiava tra l’altro anche il suo centocinquantenario della fondazione. La relazione a Stoccolma fu tenuta dal direttore del CERN Mohammed bin Hakim, poi pubblicata, con un corredo di altri interventi di eminenti scienziati, col semplice titolo di Inshallah. Era ora! (Parigi, 2105). All’entusiasmo di una tale conquista, seguì tuttavia la perplessità circa la reale utilità di raggiungere quel sasso inservibile con maggior frequenza. Occorre aggiungere che all’epoca si era enormemente aggravato il problema del sovraffollamento della Terra, la cui popolazione sfiorava ormai i quindici miliardi, e dell’esaurimento delle risorse. Era impellente la necessità vitale di far traslocare da qualche parte una bella fetta di popolazione. Fortunatamente nemmeno gli astronomi erano nel frattempo rimasti con le mani in mano. L’esplorazione dello spazio profondo e la ricerca di nuovi sistemi solari tra un centinaio di stelle più vicine al nostro Sole era in fase molto avanzata. Sonde venivano lanciate fuori dal sistema solare e scandagliavano lo spazio con strumenti sempre più sofisticati. Infine si individuò una stella di piccole dimensioni, non visibile a occhio nudo dalla Terra, attorno alla quale orbitavano ben quattro esopianeti nella cosiddetta zona abitabile, né troppo vicini né troppo lontani dal loro Sole, insomma. Dalle analisi risultò che almeno uno doveva avere caratteristiche assai simili alla Terra, per dimensioni, per abbondanza di acqua e certamente con un’atmosfera a base di azoto e ossigeno. Lo si chiamò senza troppa fantasia Novaterra. La notizia, divulgata dall’Ente Spaziale Internazionale nel 2108, suscitò una nuova ondata di attese. Un noto gruppo musicale post-romanthic-metal, i Death Travellers, scrisse un singolo di grande successo dal titolo My home is far away in cui si faceva esplicito accenno alla voglia di mollare tutto (ho usato un eufemismo, letteralmente dicevano “fuck up the world”) e partire verso una nuova casa tra le stelle. La cantavano anche gli astronauti delle stazioni spaziali e delle basi lunari e marziane. Non si può dire che si fosse creato questa volta un vero movimento di pressione o un partito specifico per l’emigrazione. Fatto sta che i governi, anticipando l’opinione pubblica e i tempi, che erano d’altra parte ormai maturi, furono subito dell’avviso di avviare un programma di esplorazione umana. Unico dettaglio: pur con tutta la nuova avanzatissima tecnologia, fatti tutti i calcoli e pur perfezionando oltre misura i mezzi disponibili, il viaggio andata e ritorno per Novaterra avrebbe richiesto non meno di ottant’anni. La durata media della vita di un uomo shorterm in quel momento. Ma, come già ho detto poc’anzi, vi sono periodi in cui l’intero progresso dell’umanità compie un balzo e, inaspettatamente, avanza su più fronti allo stesso tempo. La soluzione fu semplice e convergente: a bordo dell’astronave sarebbero andati i nuovi nati longterm. Partirono nel 2123.
V
Il pianeta fu raggiunto ed esplorato accuratamente. I dati e le immagini che ci giunsero dopo qualche decennio, raccontavano di un mondo straordinario, ricco di acqua, di vegetazione, di fauna meravigliosa, e parevano degni dei resoconti degli antichi navigatori del Cinquecento che andavano scoprendo il Nuovo Mondo. Tutta la popolazione terrestre, ormai composta al cento per cento da longterm, fremeva impaziente alla prospettiva che al più presto si sarebbero avviati i programmi per far emigrare i primi pionieri, ma si attese il rientro della spedizione che avvenne nel 2204 tra grandi festeggiamenti. Con il loro carico portarono semi, pianticelle, qualche piccolo animale, alcune strane creature volanti, non propriamente uccelli, ma più precisamente alcune varietà di piccoli mammiferi simili a marsupiali di aspetto molto grazioso e colorato. Dopo alcuni speciali televisivi che diedero conto di tutto ciò, l’equipaggio e ogni altra creatura vivente sbarcata furono sottoposti a rigorose quarantene e a controlli in inaccessibili laboratori segreti nel Kazakhistan. Tutto andò per il meglio per un anno e già si facevano piani per il trasferimento dei coloni su Novaterra. Il problema del sovraffollamento e del lavoro mancante rendeva urgente trovare al più presto uno sbocco, perciò moltissimi disoccupati si offrivano volontari. Poi avvenne qualcosa che sulle prime non destò un grande allarme. Una delle analiste russe del laboratorio kazaco, tale Irina Pugacheva, dopo aver esaminato per alcuni mesi l’apparato intestinale dei marsupiali volanti, sembrò dare strani segni di squilibrio e assassinò il suo direttore, Vincent van de Korput, a colpi di micidiali rasoiate di bisturi. Fermata in stato confusionale, non seppe dare motivazioni al suo gesto, né mostrò di riconoscere più alcuno dei suoi colleghi e collaboratori con cui fu messa a confronto. Il caso fu archiviato rapidamente come un increscioso accesso di follia. Senonché iniziarono a manifestarsi altri inspiegabili casi di perdita di memoria selettiva all’interno del laboratorio e ben presto anche al di fuori di esso. Le persone avevano difficoltà a riconoscere i propri simili, anche quando appartenenti alla ristretta cerchia di amici intimi e familiari, mentre tutti continuavano a presentare buoni ricordi della propria vita passata e delle attività che stavano svolgendo. Il morbo, di origine sconosciuta, fu diagnosticato come una variante dell’Alzheimer, o della demenza senile, che poteva colpire chiunque dal momento che si era tutti ormai di età avanzatissima in seguito all’abolizione della morte. Come accennavo, la malattia, poi semplicemente denominata Il Morbo, fu inizialmente sottovalutata e non ci si rese conto nell’immediato che non si trattava di una banale patologia degenerativa ma di un vero e proprio contagio che colpiva principalmente la popolazione anziana. E, per l’appunto, anziani lo eravamo tutti. In brevissimo tempo la diffusione del Morbo avvenne su scala planetaria. Nella sua sintomatologia più lieve si manifestava come se una scheda di memoria del cervello fosse stata estratta, o meglio, per essere più precisi, veniva a mancare la capacità di riconoscere le persone con cui si era in una qualche relazione. Ognuno era sconosciuto all’altro, perciò succedeva, ad esempio, che la moglie al mattino si levasse dal letto e avesse la sensazione che un estraneo si fosse coricato accanto a lei, o che due colleghi di lavoro incaricati di un medesimo progetto incontrassero difficoltà a collaborare diffidando l’uno dell’altro, e così via in un’infinità di altre analoghe situazioni che generavano equivoci, reticenze, paure, non di rado litigi e risse. A questo primo stadio il Morbo, una volta che il soggetto era consapevole di esserne afflitto, veniva controllato con piccoli accorgimenti di vario genere. Ogni persona, nell’incontrarne un’altra, sorrideva, salutava cortesemente, si presentava, tracciava un breve resoconto della propria vita, e se i due riscontravano delle coincidenze deducevano che si erano già conosciuti in passato e che probabilmente avevano una frequentazione stabile. Il marito in cucina in pigiama, salutava con educazione la moglie che appariva in vestaglia: «Molto lieto, mi chiamo Mario, Mario Bazzi, abito qui al civico 22 da vent’anni. A giudicare dalle circostanze del nostro incontro suppongo che anche lei viva qui. Con chi ho il piacere?». È superfluo aggiungere che queste erano solo le forme più blande del male sociale che stava avanzando, forse persino in qualche modo tragicomiche ma gestibili. Però il contagio, estendendosi, arrivò a produrre effetti surreali a ogni livello della società. Si diede il caso di affermati e premiatissimi scrittori che si videro rifiutati dal loro editore con la motivazione che non rientrava nei suoi piani editoriali pubblicare autori sconosciuti. Volti noti della televisione improvvisamente sparivano dalla memoria collettiva e la fastidiosa abitudine di essere riconosciuti e tallonati per strada per alcuni non fu una liberazione ma un trauma che li condusse a forme depressive che in qualche caso sfociarono nel suicidio. Fu la fine della letteratura, della musica, delle arti. Nella seconda fase del Morbo, ormai esteso alla maggioranza della popolazione, si dovette assistere ad un esponenziale aumento della rabbia e della violenza tra le persone. La paura dell’estraneo aveva preso il sopravvento tra le residue paure che ancora sopravvivevano nell’umanità e, siccome si era tutti estranei, l’odio dell’uno verso l’altro alzava il tasso di litigiosità a livelli inverosimili fino a condurre ad atti estremi, fino all’omicidio per i motivi più futili, come il semplice trovare insopportabile vivere sotto lo stesso tetto con uno sconosciuto o sconosciuta. Gli assassini la facevano franca, normalmente, poiché anche i sistemi di riconoscimento facciale non potevano essere validati dai testimoni. Rivedere la faccia di un omicida non produceva alcuna reazione a distanza di pochi istanti. Ciò consentiva a chiunque di compiere qualsiasi atto criminoso con la certezza dell’impunità. Il risultato infernale fu perciò che in una società di immortali il tasso di mortalità fu così elevato da superare persino i livelli dei secoli passati.
Concludo qui, per ora, la mia cronistoria che è giunta ai giorni nostri. Vi chiederete ora perché e per chi sto scrivendo. Innanzitutto una piccola percentuale di popolazione non fu contagiata. Non si sa se perché naturalmente immune o perché sfuggita casualmente al Morbo. Fatto sta che siamo alcuni sparuti gruppi sparsi nel mondo, chiusi in luoghi protetti. Vivo recluso con il mio cane da 25 anni. Come tutti gli altri qui dentro cerco di limitare allo stretto necessario i contatti personali. Non abbiamo molte notizie sui risultati di un possibile vaccino o di farmaci efficaci. Pare esistano insormontabili problemi nel manipolare i geni di agenti patogeni alieni e gli strumenti a disposizione degli scienziati, in queste condizioni di reclusione, sono molto limitati. Forse, quando là fuori si saranno ammazzati tutti l’uno con l’altro, potremo uscire e rifondare il mondo. Scrivo per i posteri, sperando di mantenere una traccia, una memoria di come eravamo e di cosa siamo diventati. Chissà se mai sarà utile. Non disperiamo, abbiamo ancora un’infinità di anni da vivere davanti a noi, sempre che non si decida di farla finita prima o poi, magari per noia.